
In questo anno scolastico 2023, come all’inizio dell’anno precedente, si ripropone la questione degli attacchi al secolarismo che costituirebbero l’uso di abaya per le ragazze (abiti tradizionali larghi che coprono tutto il corpo), e del loro equivalente maschile , qamis – attacchi il cui numero è in aumento: da Da 2167 a 4710 segnalazioni in un anno.
Naturalmente è opportuno ridimensionare l’importanza di un simile aumento: da un lato, rispetto ai 12 di studenti iscritti nelle scuole in Francia, la percentuale di casi rimane molto bassa; d'altro canto non sono necessariamente univoci e la loro interpretazione è difficile.
Resta comunque la visibilità dell'appartenenza religiosa degli studenti in uno spazio il cui laïcité è un importante principio organizzativo pone all’istituzione un problema che trova tanto più difficile da risolvere in quanto le soluzioni proposte faticano a raggiungere il consenso. Guardiamo alla già lunga storia – 35 anni – di questo problema e ai dissensi politici e morali che ha generato.
1989-2004: segni religiosi a scuola compatibili con la laicità?
Il problema della libera espressione religiosa degli studenti cominciò a essere sollevato pubblicamente solo all'inizio dell'anno scolastico 1989, quando tre giovani ragazze musulmane si rifiutò di togliersi il velo che il loro modo di vivere la fede imponeva loro di indossare. Da allora, e fino al 2004, sono scoppiati periodicamente "affari del velo" ampiamente pubblicizzati, ogni volta opponendosi ai sostenitori del divieto dei simboli religiosi e ai sostenitori del dialogo aperto, persino del riconoscimento della giusta espressione religiosa degli studenti.
Trent'anni fa a Creil scoppiò il caso del foulard.
Va notato che ciascuno dei due schieramenti si è espresso (e si esprime ancora oggi) in nome della laicità. Descrivere questa opposizione parlando di difensori della laicità contro chi vorrebbe metterla in discussione o indebolirla è tendenzioso: si tratta di adottare il punto di vista di uno solo dei partiti, quello che era favorevole al divieto . . Coloro che non erano favorevoli, però, non hanno messo in alcun modo in discussione il principio di laicità: lo hanno semplicemente interpretato diversamente, negando al potere pubblico il diritto di intervenire in una scelta convinzionale privata e sottolineando la diversità di interpretazioni a cui il “velo islamico” potrebbe essere soggetto tra le stesse persone che affermavano di indossarlo. Così che la polemica iniziata nel 1989 non contrapponeva più, come ai tempi di Jules Ferry, sostenitori e oppositori della laicità, ma sostenitori... e sostenitori.
La laicità diviene congiuntamente oggetto di un consenso e di un dissenso senza precedenti: se la proclamazione dell'adesione al principio di laicità è ormai quasi unanime, grandi e vivaci sono i disaccordi sul modo in cui esso viene inteso. Ciò che le “questioni del velo” a scuola hanno rivelato, insomma, è che la laicità è diventata oggetto di un conflitto di interpretazioni.
Le linee principali di questo conflitto – che sono ancora quelle che, oggi, strutturano il dibattito sulla laicità – possono essere schematizzate nel modo seguente. Da un lato, una laicità che appare “repubblicana” (e che di solito viene designata come tale), rappresentata esemplarmente da filosofi come Catherine Kintzler et Henri Peña Ruiz, o ancora, più recentemente, dal movimento repubblicano Le Printemps, fondato nel 2016 da Laurent Bouvet e Gilles Clavreul. La messa al bando dei simboli religiosi nelle scuole si giustifica allora in nome di un universalismo laico ed emancipatore, preoccupato della progressione delle istanze comunitarie, che chiede la chiusura della scuola ai “tumulti del mondo” e la messa tra parentesi, al suo interno , particolarità familiari.
L'approccio opposto può essere definito “liberale”.Non meno, infatti, “repubblicana” della prima, ma a differenza di lei, insiste sulle libertà garantite dalla legge del 1905 sulla separazione tra Chiesa e Stato e tende a vedere nel repubblicanesimo dei difensori della il divieto dei simboli religiosi nelle scuole non costituisce un aggiornamento dei principi di questa legge ma, al contrario, una deviazione del suo spirito, anche con la il sociologo Jean Baubérot, una falsificazione. Oltre a J. Baubérot, sociologi e storici come Philippe Portier, Valentine Zuber o Patrick Weil e filosofi come Philippe Foray o Jean-Fabien Spitz condividono questo orientamento liberale.
Tuttavia nel 1989 e fino al 2004 sarà questa interpretazione liberale a prevalere ufficialmente. Infatti, il Consiglio di Stato, interpellato dall'allora ministro Lionel Jospin per un parere sulla questione, dichiarò che il velo a scuola "non è di per sé incompatibile con il principio di laicità", poiché non si accompagna a violazioni da parte degli studenti del regolare rispetto della scuola ordine (rifiuto dell’insegnamento, proselitismo, ecc.).
Questa opinione costituirà un precedente durante i casi del velo multiplo scoppiati negli anni Novanta e che portarono all'esclusione degli studenti incriminati: i tribunali amministrativi convalidarono tale esclusione solo quando furono accertate tali violazioni (a carico dell'istituto scolastico di fornire prova) e imponeva la reintegrazione degli studenti in tutti gli altri casi.
La svolta del 2004
Ciò però non ha impedito che la lite, amplificata dai media, continuasse ad infiammare il dibattito pubblico. Ciò non ha favorito la serenità nemmeno nelle scuole medie e superiori, portando i capi d'istituto a prendere decisioni caso per caso che potevano dividere profondamente le aule docenti e comunque restare eventualmente soggette a successivo giudizio dei tribunali amministrativi. . La giurisprudenza scaturita dal parere del Consiglio di Stato è stata quindi poco recepita dal mondo docente e poco compresa dall'opinione pubblica.
Nel luglio 2003, il Presidente della Repubblica Jacques Chirac ha istituito un comitato di riflessione sull'applicazione del principio di laicità, presieduto da Bernard Stasi, allora Mediatore della Repubblica. La commissione si pronuncerà a favore del divieto di ostentazione vistosa di simboli religiosi da parte degli studenti. Delle trenta raccomandazioni formulate dai commissari, questa è l'unica che il governo ha mantenuto, e la 15 marzo 2004 Viene approvata la legge che, “in applicazione del principio di laicità”, vieta “nelle scuole pubbliche, nei collegi e nei licei, di indossare segni con cui gli studenti manifestino ostentatamente l'appartenenza religiosa”.
Presentazione del rapporto Stasi nel 2003 (estratto dal telegiornale France 2, INA).
La circolare del 18 maggio 2004 specificherà, a titolo esemplificativo, che rientrano nell'ambito di tale divieto segni quali “il velo islamico […], la kippah o una croce di dimensioni manifestamente eccessive”.
Una lite infinita?
Questa legge ovviamente rende obsoleta la precedente giurisprudenza “liberale”. Tuttavia, ha risolto i problemi che intendeva risolvere? Possiamo discuterne. Le disposizioni della legge del 2004 hanno continuato a essere criticate dai sostenitori di un approccio più "liberale" al problema, in particolare, ma non solo, da Jean Baubérot, che è stato l'unico membro della commissione Stasi a non aver votato per vietare i segni ben visibili .
Philippe Portier non esita a parlare di "svolta securitaria della laicità", una svolta accentuata dagli attentati di gennaio e novembre 2015 e dall’ascesa dell’islamismo radicale. Si può anche sostenere che la legge, alla luce di alcune delle sue intenzioni dichiarate (respingere la spinta comunitaria di una certa parte della popolazione), controproducente e che presenta per gli studenti lo svantaggio di dare loro l'immagine di una laicità basata sui divieti piuttosto che sulle libertà.
Abaya e qami sono quindi gli ultimi episodi di una crisi a cui la legge del 2004 voleva porre fine… e che è ancora in corso. Il loro divieto da parte del nuovo ministro Gabriel Attal è indubbiamente fondato in diritto, cosa che è stata appena confermata dall'art Consiglio di Stato. Si tratta solo di un caso particolare del divieto generale formulato dalla legge del 2004, che riguarda in linea di principio qualsiasi manifestazione apparente di appartenenza religiosa, citando il velo, lo yarmulke o la grande croce solo a titolo esemplificativo. Sostenere che questa nuova moda ha un significato culturale e non settario è difficile da sostenere, poiché la “cultura” a cui qui si fa riferimento è strutturata, o almeno sovradeterminata, dalla religione dominante dei paesi in cui tale “cultura” è nata.
Non è illusorio pensare che un simile divieto risolverà una volta per tutte un problema che i precedenti divieti non hanno impedito che si ripresentasse? Ieri il velo, oggi l'abaya e domani? Potrebbe essere il momento di sostituire queste ondate di preoccupazione, troppo facilmente esposte alla strumentalizzazione politica, con un dibattito serio, calmo e ragionato. Un dibattito durante il quale i diversi approcci alla laicità potrebbero spiegare i loro disaccordi senza anatemi, e che potrebbe finalmente fornire ai cittadini gli spunti necessari per orientarsi meglio nella complessità giuridica, storica, sociologica e filosofica di queste questioni.
Peter Kahn, professore universitario emerito, Università di Caen Normandia
Questo articolo è ripubblicato da The Conversation sotto licenza Creative Commons. Leggi ilarticolo originale.